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Essere parte di una tribù – come afferma anche Seth Godin nel suo speech per TED Talks – è una caratteristica che l’uomo ha sempre voluto e cercato, che si basa su un processo molto semplice: mettere in contatto persone e idee. Tutti hanno almeno una tribù, che siano i compagni di università o coloro con i quali fai attività sportiva, così come il gruppo dei colleghi di lavoro, dei genitori a scuola o anche il gruppo di credenti con i quali scambi due parole dopo una funzione religiosa. Ogni gruppo ha i propri segni distintivi, il proprio lessico, gusto nel vestire, simboli, tradizioni usi e costumi.
Il modo in cui agiscono, si comportano, esprimono se stessi e condividono tutto con il gruppo, non dipende dal fatto che vengano obbligati o costretti, ma è semplicemente perché lo vogliono. Vediamo, ad esempio, le associazioni politiche piuttosto che i fan di un cantante: sono tutte persone che decidono di incontrarsi per un motivo senza essere vincolate ma per un ideale di condivisione.
Grazie ad Internet abbiamo avuto modo di espandere esponenzialmente la possibilità delle persone di comunicare con il proprio gruppo, organizzarsi, mettersi in contatto e trovarsi. Un tipo di incontro che va oltre la realtà fisica, considerando nuove modalità per interfacciarsi agli altri e con altre centinaia di persone nello stesso momento. Un sistema in cui tutti possono comunicare ed esprimere ciò che pensano con la consapevolezza di essere letti, visti o ascoltati dagli altri.
Essere presenti online ha fatto sì che intraprendessimo delle relazioni su un piano virtuale portando in esso le dinamiche del piano reale. Prima tra tutte la rete sociale.
Questa nozione emerge dalle ricerche di tre studiosi: Jacob L. Moreno, Jhon A. Barnes e J.Clyde Mitchell. Dagli anni Trenta del Novecento, questi studiosi, si sono cimentati nell’analisi delle reti, dei loro nodi e di ciò che lega quest’ultimi gli uni agli altri rendendo così più chiare quelle che sono le dinamiche sociali che determinano le relazioni interpersonali.
Ma è solo nel 1991, con Jan van Dijk, che viene coniato il termine Network Society in relazione ai cambiamenti socio-politici ed economici dovuti all’arrivo di Internet. Questa nuova “società” nel contemporaneo è caratterizzata dalla centralità dell’informazione come risorsa strategica assecondata da una continua corsa all’innovazione che si fa sempre più veloce.
Questo principio innovativo ha sempre guidato la sfera sociale ma, ad oggi, si cerca di realizzare costantemente qualcosa di nuovo che possa portare un vantaggio per l’essere umano, il suo lavoro e le relazioni.
Questi presupposti sono stati fondamentali nella determinazione di una Learning Organization ossia un modello d’impresa che basa la sua produzione sull’apprendimento e sull’innovazione. Così facendo, le aziende e le imprese si mantengono sempre aperte a nuovi approcci per rendere il processo più efficiente, incoraggiando così anche un meccanismo basato sul produrre ciò che si è già venduto in un’ottica di continuo adattamento. Le organizzazioni vengono dunque pensate in modo reticolare, con i diversi dipartimenti in continua connessione tra loro al fine di essere sempre aggiornati, efficienti e consapevoli di ciò che sta avvenendo, utilizzando un sistema di comunicazione in grado di raggiungere tutti i vari livelli del management aziendale.
La convergenza di questi fattori, insieme all’introduzione prima di Internet e poi del web, ha determinato la costituzione di un’ecosistema altamente integrato e di estensione globale creando una rete sociale digitale.
Dall’inizio degli anni 2000, con l’accesso delle persone al web, sono venute a crearsi delle comunità, inizialmente nei forum di appassionati per poi ampliarsi ai blog, fino ad arrivare oggi ai i social media e alle altre piattaforme digitali.
Cambia, così, il nostro modo di conoscere il mondo e le regole che determinano i rapporti sociali: questi infatti non sono più solo tra conoscenti e persone vicine ma si estendono a persone che spesso nemmeno si conoscono se non per quanto pubblicato sui loro profili, o che comunque non si sono mai viste dal vivo. É stato facile comprendere, in seguito, che la struttura delle relazioni sul web fosse incredibilmente simile a quella della Network Society. Essa, infatti, si presenta organizzata in nodi, i cui legami sono quelli che si instaurano tra gli user di una piattaforma, di un servizio web o di un sistema di condivisione. La rete sociale digitale è considerata uno dei mezzi di comunicazione più potenti al mondo proprio per la sua capacità straordinaria di coinvolgere una massa di individui numericamente maggiore rispetto a quella “fisica”. Questi utenti si trovano a navigare in un unico luogo mantenendo la propria autonomia ma, allo stesso tempo, dimostrando una continua interdipendenza, in uno spirito di cultura partecipativa (come sostiene Jenkins) in cui ognuno da il proprio apporto diventando attore nel sistema e non solo spettatore passivo. Alla luce di quanto espresso, i social media sono diventati parte integrante della realtà. Non sono quindi un qualcosa di distaccato dal quotidiano, ma vanno anzi ad influenzare i diversi aspetti del nostro mondo, amplificando e ampliando i mezzi di comunicazione, modificando il sistema economico e creando nuove opportunità per le imprese che scelgono di presidiare il contesto digitale così da raggiungere i consumatori in modo più “amichevole” e senza il distacco che contraddistingue la pubblicità tradizionale.
Da uno studio di “We are social”, sui social media sono presenti ad oggi 4,62 miliardi di persone in continua crescita. La maggior parte di essi interagisce con gli altri utenti tramite post e commenti in modo costante. Alla base di social media troviamo il termine “social” che identifica proprio questa loro capacità di realizzare reti sociali virtuali. Prima di proseguire è necessario chiarire la differenza tra social media e social network per poter comprendere in modo chiaro quanto seguirà. Andreas Kaplan e Michael Haenlein, esperti di marketing, nel 2009 specificano che:
“I social media sono un gruppo di applicazioni costruite sui principi ideologici e tecnologici del Web 2.0 che permettono la creazione e lo scambio di contenuti generati dall’utente.”
I social media sono quindi delle applicazioni – considerate da un punto di vista di software – che offrono la possibilità di eseguire azioni. I social network invece, prendono in considerazione la persona facente parte della rete sociale creatasi tra individui con elementi in comune, instaurando perciò una comunicazione tra i diversi soggetti.
Il web diventa un luogo virtuale all’interno del quale non si è solo spettatori inermi che assorbono i contenuti presenti in rete, ma veri e propri co-creatori di valore. Gli utenti possono infatti prendere parte attivamente al processo condividendo foto, video, immagini e i propri pensieri con gli altri utenti. Si tratta di una collaborazione orizzontale che coinvolge tutti gli attori, in cui tutti vogliono dare un apporto dando vita e condividendo il proprio punto di vista tramite nuovi contenuti e format, fino a creare dei veri e propri trend che tutti vogliono ricreare e condividere per sentirsi parte di una community. In particolare, ad oggi Instagram e TikTok sono i social media che più di tutti diventano terreno fertile per questo tipo di contenuti.
Innanzitutto quando riesce ad intercettare un’emozione o un sentimento comune, che sia condiviso da molti, che attiri l’attenzione verso un determinato argomento e che di conseguenza inviti all’azione un gran numero di persone. Non si può’ prevedere con certezza che un contenuto diventi virale ma quanto più è condivisibile e dispone di una formula semplice tanto più esso può, potenzialmente, essere prodotto dalla massa.
Il social sharing, ovvero il condividere sui social media è dovuto ad un fattore perlopiù psicologico quindi, perché le persone postano?
Alla base troviamo la soddisfazione di alcuni bisogni (riportati da Maslow secondo uno schema a piramide). Primo tra tutti quello di autorealizzazione.
Tendiamo a pubblicare ciò che mette in mostra le nostre abilità i nostri successi. Quante volte aprendo un social network, primo tra tutti LinkedIn, troviamo un post che indichi il successo di una persona in un determinato ambito? Ormai è diventata una gara per la conquista del successo, una continua rincorsa a chi fa meglio e di conseguenza avanza di un posto rispetto agli altri nella scala sociale. Un altro bisogno che cerca di colmare chi posta, è quello di appartenenza: per sentirsi accettati, essere parte di un gruppo e far parte di quel meccanismo che viene utilizzato dagli altri come una sorta di riprova sociale per la quale “se lo fanno tutti devo farlo anche io”.
Per concludere poi con la necessità di stima, che nasce dal desiderio di veicolare una certa immagine di noi stessi, un modo in cui vogliamo apparire e che, tramite i social, viene concretizzato nella scelta dei post e delle stories che si creano e condividono. Le persone vogliono quindi portare se stesse nella piattaforma, che sia per mostrare una parte di sé, per dimostrare quanto si vale, o per raccontarsi per come si è con pura autenticità, passando dall’essere una pura vetrina ad una raccolta di esperienze, consigli e conoscenze che possano essere d’aiuto alla restante parte della community.
Infine, uno dei meccanismi che incentiva l’azione nelle piattaforme deriva dal colmare un bisogno di ricompensa. Sentirsi amati e apprezzati per quello che si è o che si fa, indubbiamente reca un senso di piacevolezza nell’individuo che misurando il tutto in likes, repost e commenti accresce la sua autostima e il suo sentirsi accettato. Il fenomeno del social sharing trova dunque la sua origine in un fattore psicologico influenzato dal contesto sociale e dalla socialità stessa dell’uomo che, essendo intrinsecamente predisposto alla vita in gruppo, sente la necessità di affermare il proprio ruolo e la propria immagine all’interno di esso per non rischiare di sentirsi escluso.
Il potere e l’influenza si riferiscono entrambi a tratti posseduti naturalmente. La differenza sta nel modo in cui questi due approcci spingono a comportarsi le persone attorno al soggetto influente/potente. Il potere, secondo la definizione di Max Weber, è:
“La possibilità che un individuo, agendo nell’ambito di una relazione sociale, faccia valere la propria volontà anche di fronte a un’opposizione”
Che il soggetto di potere imponga quindi decisioni obbligatorie. Il potere costringe le persone ad effettuare una determinata azione, ed è dunque sempre prescrittivo e controllante, duro e autoritario. L’influenza invece aiuta le altre persone a capire perché quell’azione è necessaria o perché dovrebbero svolgerla. Le persone in genere cercano di guidare e/o influenzare gli altri utilizzando tecniche di influenza positiva come la persuasione logica, la legittimazione, lo scambio, la socializzazione e l’appello alla relazione o ai valori. L’influenza mira quindi a determinare atteggiamenti e comportamenti altrui tramite il coinvolgimento, la convinzione e l’orientamento.
Il concetto di influenza, quando impiegato in riferimento alle reti che si costruiscono online sulle piattaforme di social networking, si riferisce alla caratteristica di alcuni nodi/profili/utenti di essere in grado di influenzare, con le proprie azioni e opinioni, quelle altrui, e all’ abilità di suscitare ulteriore attività a partire dalla propria, in merito a un dato argomento, a un tema, del quale l’utente in questione ha una buona conoscenza ed esperienza. In un contesto particolare come quello dei media digitali l’influenza è strettamente legata al concetto di visibilità, che nei social network è una caratteristica propria di ogni profilo che sceglie in che modo gestirla. La nascita di Internet ha portato un radicale cambiamento nel modo di comunicare. Con l’arrivo delle comunicazioni digitali e della rete, abbiamo assistito alla crescita di visibilità e di influenza di persone che erano escluse dai media tradizionali. Già negli anni Quaranta si era percepita la capacità di certi particolari individui a diffondere informazioni e influenzare gli altri. Venivano definiti come opinion leader. Attivi nei media, erano in grado di veicolare il contenuto dei messaggi mediatici a un certo segmento di utenti, modificandone al contempo scelte e decisioni. In particolare la nascita dei social network, crea nuove opportunità di messa in atto dell’influenza sociale. I blogger sono stati i primi ad accorgersi che potevano ottenere un pubblico che avrebbero potuto condizionare attraverso la loro reputazione data dai contenuti messi gratuitamente a disposizione dei lettori. Successivamente, con l’arrivo dei social media e di YouTube, altri personaggi sono cresciuti e hanno ottenuto un incredibile seguito. Allo stato attuale, tutti quanti sono ormai potenzialmente personaggi pubblici, comunicatori, giornalisti e registi. Negli ultimi anni in particolare, sul Web abbiamo visto sorgere vere e proprie posizioni di autorità e di potere personale, con la capacità di alcuni soggetti di dominare la discussione nelle communities. Sono nate forme di autorità attribuite a poche persone all’interno delle piattaforme sociali, come l’influenza di un blogger sull’opinione pubblica del suo tempo. Le gerarchie all’interno di un ambiente online vengono stabilite in base alle competenze. Pur essendo animati da un’ideologia radicalmente partecipativa, i gruppi open source si adeguano solitamente ad una sorta di autorità meritocratica, per cui la gran parte delle attività viene svolta da non più del 10% delle persone iscritte. Con il nascere di posizioni di potere carismatico all’interno dei network e l’emergere di personalità forti capaci di dominare gli altri dall’alto delle proprie risorse riconosciute di prestigio, autorevolezza e credibilità, si è sviluppato un movimento di centralizzazione che porta il traffico verso pochi nodi favorendo quindi l’emergere di posizioni dominanti.
Diversi segmenti del Web seguono la stessa legge di auto-organizzazione: blog, Twitter, aggiornamento delle pagine Web, distribuzione del numero di pagine tra i diversi domini. La power law agisce al livello della struttura definendo un pattern capace di spiegare il traffico complessivo della rete ma non interferisce in alcun modo con la libertà dell’azione individuale. Nonostante ciò, vi è comunque una diseguaglianza per la quale alcuni elementi vengono distribuiti equamente e altri no. Possiamo dunque chiederci quale sia il grado di distribuzione più probabile tra i nodi di una rete.
Secondo il modello Barabási Albert (BA) la spiegazione per la quale vi è questa distribuzione di potere risiede nell’architettura stessa della rete, non dipende dal singolo o dai singoli all’interno di essa e, di conseguenza, il divario distributivo non sarà mai colmabile. Si ritiene che molti sistemi, come Internet , il World Wide Web, e alcuni social network, siano approssimativamente privi di scala e che contengano comunque pochi nodi (detti hub) con un grado insolitamente alto rispetto ad altri nodi della rete. Ciò implica che non esistono poveri o ricchi di per sé, sono le reti a stabilire e creare questo tipo di differenze. Da un punto di vista digitale i siti seguono la power law distribution e ciò implica che quando uno dei colossi scomparirà, ce ne sarà un altro pronto per sostituirlo, e non solo perché meritevole, ma per la natura stessa della rete che impone che il potere porti altro potere, la ricchezza altra ricchezza, i contatti altri contatti. The rich get richer.
Quando si parla di influenza sui social media, si ricorre al concetto di engagement. All’interno di un social infatti, l’engagement è l’abilità di un utente di interagire con un certo numero di altri utenti, di avere un comportamento tale da coinvolgere nell’attività della rete il maggior numero di persone possibili. Più persone si riescono a coinvolgere, più contatti recepiscono il messaggio e reagiscono di conseguenza, più l’utente che ha innescato questo flusso di partecipazione è considerato influente. Da qui nasce e si sviluppa il fenomeno delle/degli Influencer: individui che hanno il potere di indirizzare le decisioni degli altri a causa della loro (reale o percepita) autorità, conoscenza, posizione o relazioni. Sono dunque particolari utenti che riescono – grazie alla loro riconosciuta competenza e una notevole esposizione – ad amplificare pareri, messaggi, opinioni, andando così a influenzare una certa tipologia di pubblico. Ciò che trasmettono gli influencer sono soprattutto ideali, motivo per cui, esistono Influencer impegnati in diversi ambiti socio-culturali, come Chiara Ferragni, esempio di empowerment femminile e della corrente della “liberazione dei corpi”, oppure i book e travel influencer. Non hanno nessun “potere” particolare, se non la loro reputazione che spinge la gente a fidarsi di loro, facendone un punto di riferimento da cui attingere per considerazioni attendibili e veritiere. Volendogliene necessariamente attribuire uno, si potrebbe dire che il potere degli Influencer è proprio quello di essere state persone “comuni”. Il messaggio che passa è che qualsiasi persona può diventare un Influencer e avere successo pur non facendo parte dello star system.
Riprendendo il concetto di Power Law, si può dire che non solo il potere porta altro potere, ma che il potere porti cambiamento. Perché cambiamento? Perché se veicolato correttamente, il potere ha la capacità di spingere gli altri a fare ciò che è meglio per la collettività. Lo abbiamo visto specialmente durante il primo lockdown da Covid19: gli Influencer sono riusciti a spingere migliaia di persone a fare ciò che desideravano. Chiara Ferragni e Fedez hanno spinto milioni di persone a donare per la costruzione di ospedali, a vaccinarsi per diminuire il rischio di contagio, ad acquistare determinati prodotti nonostante le ristrettezze economiche del periodo. Questo non solo ha permesso ad entrambi di diventare ancora più ricchi tramite sponsorizzazioni e creazione di contenuti, ma di acquisire ulteriormente potere e di mettersi idealmente al pari di medici e politici – se non di superarli – che in quel preciso momento stavano cercando di spingere le persone alle stesse azioni ma con scarsa riuscita, trasportando così il loro essere al vertice della gerarchia della rete anche nella vita reale. Grazie alla loro influenza e al loro potere sono riusciti a far costruire un ospedale e rendere il vaccino un trend, così da avvicinare anche le generazioni più giovani ad un’azione tutt’altro che scontata oltre che molto discussa nel 2020. Il trend del vaccino per il Covid si è rapidamente diffuso, grazie anche al passaparola, portando alla nascita di canzoni quali “Girl on Pfizer” remake dell’originale “Girl on Fire” di Alicia Keys e di hashtag come #DonnaModerna, per non parlare delle miriadi di sticker e gif create appositamente per i contenuti che attestavano il fatto di essersi vaccinati. Da questo fenomeno nasce però la riflessione riguardo la necessità – per non dire ossessione – di postare qualunque cosa per provare di averla realmente fatta o vissuta, di cui andremo a parlare più avanti.
Negli ultimi anni, specialmente su Facebook, si è venuto a formare un nuovo fenomeno: quello delle echo chambers, ovvero l’amplificazione e rafforzamento di informazioni, idee o credenze tramite comunicazione e ripetizione all’interno di un sistema definito, come una piattaforma social. All’interno di una echo chambers, le fonti spesso non vengono messe in discussione e le visioni diverse o concorrenti sono censurate, non consentite o altrimenti sottorappresentate. L’aspetto che maggiormente ha contribuito alla creazione di queste è stato il continuo cercare conferme della propria opinione anziché fonti dissonanti da parte degli utenti dei social e in generale dei fruitori dei media tradizionali e non: se i media generalisti escludevano le idee estreme e irragionevoli per offrire al pubblico una rappresentazione relativamente condivisa del reale, su Facebook è molto semplice trovare una pagina in linea con le proprie convinzioni, quali esse siano. La crisi di credibilità dei media tradizionali e l’affermazione del News Feed, quale fonte privilegiata di informazione, ha sortito l’ulteriore effetto di esporre gli utenti a notizie selezionate dalla propria rete sociale di appartenenza.
Le fake news sono sempre esistite, così come i tentativi di trarne vantaggio da parte di soggetti influenti, ma i social hanno offerto il perfetto mezzo di diffusione e amplificazione di queste. Durante il primo periodo di Covid si è scoperto il reale potere delle fake news e la loro capacità di creare scompiglio, dissapori e confusione tra le persone. Dai telegiornali ai social, la disinformazione si è fatta strada nel feed di ogni utente e spettatore televisivo, che non sapendo a cosa credere ha cercato conforto e verità nella voce di chi fino a quel momento li aveva apparentemente guidati nel migliore dei modi: gli Influencer. Certo, molti come Chiara Ferragni e la sua famiglia sono stati un faro di speranza in quel periodo, insieme a testate informative social come Will – che grazie all’accurata verifica delle fonti si è rivelato un profilo competente e capace di far luce sulle questioni più spinose – ma altri personaggi hanno agito contro quello che al momento era il volere e la necessità politica, economica e sociale, diffondendo fake news riguardanti la pandemia, i contagi, i vaccini e le precauzioni prese dai vari governi e contribuendo così a creare disinformazione e panico in un momento già di per sé estremamente delicato. Questo dimostra che i social sono incredibili e potenti amplificatori di comunicazione ma che – data la loro influenza sulla vita reale e non solo virtuale – nelle mani sbagliate possono diventare un mezzo dannoso per gli equilibri economici e socio-politici.
Un algoritmo è una serie di istruzioni utilizzate per risolvere un problema o raggiungere un obiettivo specifico. Esistono due grandi categorie di algoritmi: algoritmi che basano la categorizzazione degli elementi secondo un criterio di popolarità e quelli che, invece, si basano sulle caratteristiche tecniche di un contenuto web. La popolarità di un contenuto aumenta con il tempo ed è determinata da fattori come likes, ricondivisioni, commenti, click e risposte. tutto ciò fa sì che più questo contenuto si dimostri interessante per il pubblico più venga messo in primo piano. Dall’altra parte troviamo un algoritmo che personalizza i contenuti in base a determinate caratteristiche personali, come l’indirizzo IP o la cronologia delle ricerche, con il risultato che utenti diversi visualizzano i contenuti in ordini diversi.
Dunque, in che modo possono questi algoritmi determinare le scelte che facciamo in rete? Pensiamo agli algoritmi basati sulla popolarità di un contenuto, a seconda del numero di click e visualizzazioni questo contenuto viene proposto maggiormente agli utenti fino a che non raggiunge un livello di “saturazione” per cui l’elemento perde di popolarità e viene perso di vista dall’algoritmo. Questo sistema fa sì che finchè un determinato contenuto viene proposto a milioni di utenti genera un cosiddetto trend, ovvero un fenomeno di grande popolarità tra gli utenti dei social network. Il trend implica che gli utenti, quindi le persone, emulino il contenuto del trend stesso contribuendo alla sua viralità fino alla fase di saturazione. È interessante osservare come, prima dell’avvenimento di questo fenomeno, la popolazione del social media non avesse alcuna intenzione di produrre e pubblicare quel determinato contenuto. Un’altra forma di coinvolgimento causata dall’algoritmo è la notifica. Attraverso queste infatti il social si assicura che l’utente rimanga attivo e rimanga quanto più tempo possibile sulla sua piattaforma. Ad ogni interazione con un nostro contenuto si riceve un avviso dalla piattaforma. Questa è una dinamica che da sempre ha fatto parte dei social network ma nelle versioni più recenti ha subito dei notevoli cambiamenti di funzionalità allontanandosi sempre più dalla semplice funzione di avviso. Ad oggi esistono infatti delle notifiche volte proprio a spingere l’utente a pubblicare contenuti sulla piattaforma: solitamente questi messaggi vengono inviati ad utenti poco attivi o che utilizzano il social media da utenti passivi, che interagiscono con i contenuti altrui ma senza postarne di propri. Il primo esempio sono le notifiche dirette che esortano l’utente a pubblicare qualcosa per farsi sentire dai propri amici utilizzando frasi come “è da molto tempo che non pubblichi qualcosa…” o ancora “fai sapere ai tuoi amici…” queste sono delle vere e proprie call to action a creare e pubblicare contenuti, inviate automaticamente quando il livello di interazione e attività risulta essere basso secondo l’algoritmo. Perciò queste forme di coinvolgimento possono diventare un rischio contribuendo a diffondere elementi di disagio sociale come la FOMO (Fear Of Missing Out), o ancora peggio casi di depressione causati dal conflitto tra le insicurezze personali e la richiesta da parte della piattaforma di essere un utente attivo. Gli algoritmi costituiscono la spina dorsale dei social media e dei motori di ricerca utilizzati da miliardi di persone ogni giorno. Comprenderne e studiare il loro impatto è di fondamentale importanza per il futuro dell’ecosistema delle piattaforme digitali e per l’opinione pubblica più in generale. I numeri non sono opinioni, non mentono, ce lo insegnano fin da piccoli. Per questo ci affidiamo a loro in molte scelte quotidiane: scegliere l’hotel più conveniente, seguire consigli di acquisto personalizzati dai siti di e-commerce, leggere articoli di giornale consigliati dai tuoi social network preferiti. Sappiamo ormai tutti che spesso è il marketing a consigliare rielaborando i nostri dati personali. Non sembra che ci importi molto. Convinto dell’infallibile affidabilità della macchina, un risparmiatore italiano su cinque – gli americani ne hanno già di più – ha rinunciato ai consulenti reali e ha affidato i propri soldi a “robo-advisor”. La tv in streaming Netflix usa potenti formule matematiche per indirizzare gli abbonati verso determinati show in base alle loro abitudini: funziona al punto che perfino la BBC ha avviato un progetto per imitarla e, in collaborazione con otto Università britanniche, intende sfruttare l’apprendimento automatico dei decoder per capire le scelte dei telespettatori e anticiparle.
In conclusione, queste forme di coinvolgimento possono diventare un rischio contribuendo a diffondere elementi di disagio sociale come la fear of missing out o ancora peggio casi di depressione causati dal conflitto tra le insicurezze personali e la richiesta da parte della piattaforma di essere un utente attivo.
Le generazioni più recenti sono considerate native digitali, perciò persone che non sono in grado di scindere l’elemento digitale da quello analogico e che danno per scontato il primo e non conoscono il secondo. L’ISTAT ha somministrato un breve questionario a giovani che appartengono ad una fascia d’età tra i 14 e i 20 anni – con una maggioranza rappresentata da quindicenni e sedicenni – a risposta chiusa, volto ad indagare le abitudini di utilizzo dei dispositivi tecnologici e dei social media. Gli intervistati quasi all’unanimità hanno indicato di utilizzare smartphone (98,5%), seguiti da computer (48,9%), televisori (35,9%), tablet (17,6%) e infine console per videogiochi (15,3%). Secondo i risultati, il dispositivo multimediale più utilizzato tra i ragazzi intervistati è lo smartphone, che supera di circa 50 punti percentuali il computer. L’utilizzo di quest’ultima è però aumentato rispetto alla precedente rilevazione (dal 27% al 49%), probabilmente per lo sviluppo della didattica a distanza nel 2020 e nel 2021.Se infatti il 15% dichiara di utilizzarli per non più di due ore al giorno, il restante 85% supera le due ore di connessione giornaliera, con la quota massima del 28% dei rispondenti che sostiene di farne uso dalle 6 alle 8 ore al giorno. Gli italiani rientrano nella media globale, con circa 35 ore online, navigando in rete per 7 ore a scuola e per le restanti 28 da casa. Questo dato dovrebbe preoccuparci in quanto un utilizzo superiore alle 6 ore al giorno è considerato dall’OCSE come pericoloso, in quanto potenzialmente apportatore di effetti dannosi sull’attenzione, sulla capacità di concentrazione e sulle relazioni sociali. La quasi totalità dei giovani intervistati dichiara inoltre di essere iscritto ad un social network, primo fra tutti Instagram, app utilizzata dal 97% dei rispondenti. Segue – con un punto percentuale di scarto – WhatsApp, il quale però non viene tanto considerato un social network quanto un mero strumento di messaggistica. Anche TikTok è un social molto apprezzato dagli studenti rispondenti, con una percentuale di utilizzatori che sfiora il 70%. Non raggiunge invece il 40% Facebook, considerato un social più adatto alle persone adulte. Percentuali di utilizzo significative sono infine raggiunte da Snapchat (36%), Twitter (21,4%) e Messenger (15,3%). I social network, d’altronde, non rappresentano più solo un mezzo attraverso cui creare e successivamente condividere contenuti, ma uno spazio virtuale attraverso cui consolidare relazioni già esistenti offline o instaurare nuove amicizie online. Focalizzandoci sulla modalità di utilizzo di Instagram, rileviamo che fra i contatti degli studenti intervistati spiccano gli amici e i compagni di classe, ma non mancano i contatti di ragazzi conosciuti esclusivamente on line. Questo dato ci deve far riflettere poiché, non potendo risalire con certezza all’identità che si cela dietro un profilo social, diviene impossibile affermare con certezza che si tratti di un coetaneo piuttosto che di una persona adulta sotto falso profilo. L’utilizzo dei media device e in particolare della loro principale applicazione, i social network, ha visto un ulteriore incremento durante la pandemia da Coronavirus. È infatti l’89% degli intervistati a dichiarare il maggiore utilizzo dei social network conseguente al distanziamento sociale a cui ci ha costretti la crisi sanitaria. Questo dato non sorprende, se si pensa all’allarme lanciato a più voci da pedagogisti e psicologi rispetto al rischio dipendenza dai social network particolarmente aumentato durante questo ultimo anno e mezzo. I social abbracciano una gran fetta di popolazione e non a caso, possiamo parlare di uso e abuso di internet, all’interno di una fascia molto vasta, dai più piccoli – che come regalo di compleanno si fanno acquistare uno smartphone da genitori o parenti – alla gente più anziana – che un po’ per solitudine un po’ per sentirsi più giovani, creano il proprio profilo su Facebook -. Come tutte le dipendenze, anche per l’abuso di Internet, il problema nasce dall’ eccessivo uso che si fa di uno strumento: è dal numero di ore di uso e dall’importanza che affidiamo allo strumento che nasce la patologia. I social hanno inoltre una grande capacità di influire sul nostro umore. Immaginiamo di trovarci nella nostra stanza, è una giornata un po’ noiosa e di quelle in cui ci siamo svegliati un po’ tristi e poco riposati. Accediamo ad Instagram ed ecco le foto dei nostri “amici virtuali” che si riprendono mentre sono felici e sorridenti in un bar in spiaggia a sorseggiare un cocktail in allegra compagnia con gli “amici reali”. Alziamo gli occhi e noi siamo sempre chiusi nella nostra stanza. Qual è l’emozione che vi assale? Questo è l’effetto che i social hanno su di noi: amplificano ogni emozione.
Sono innumerevoli le tragedie verificatesi in seguito alle sfide lanciate sui social: ma perché si verificano? Cosa sta alla base di questo autolesionismo sociale visto come un trend in continua crescita? Nel gennaio 2021 una bambina è deceduta all’ospedale Di Cristina di Palermo, dove era arrivata in gravissime condizioni a causa di un arresto cardiocircolatorio dovuto ad asfissia prolungata. Da subito le testate giornalistiche hanno puntato il dito contro una presunta «sfida estrema su TikTok» culminata in tragedia, che purtroppo rappresentava solo l’ennesima tra le tante già tristemente accadute in passato. Tale ipotesi è stata verificata anche dagli stessi parenti della giovane vittima e in particolare dalla sorella di 9 anni, che avrebbe dichiarato che «stava facendo il gioco dell’asfissia». Come si può chiamare gioco una tale pratica? E soprattutto, su TikTok esiste una sfida che spinge al soffocamento. La tragedia di Palermo è stata pertanto da subito collegata alla cosiddetta Blackout challenge, il cui obiettivo sarebbe quello di sfidare gli utenti a trattenere il respiro per il maggior tempo possibile, resistendo di solito con una cintura o un laccio stretti attorno al proprio collo, per sperimentare sensazioni simili alla perdita di conoscenza o all’euforia di quando ci si trova senza ossigeno. Di questi folli comportamenti non si può che riconoscere l’elevata e intrinseca pericolosità, in quanto chi si cimenta nella “challenge” potrebbe trovare la morte per asfissia, come nel caso della piccola di Palermo.
Quella dei giochi finalizzati all’auto-strangolamento è una dinamica reale, diffusa da più 25 anni. Secondo una ricerca pubblicata dai Centers for Disease Control and Prevention (l’ente statunitense per il controllo e la prevenzione delle malattie), tra il 1995 e il 2007 questo fenomeno ha provocato almeno 82 vittime tra i 6 e i 19 anni nei soli Stati Uniti. I CDC lo chiamano The choking game (in italiano, il “gioco dello strangolamento”) e consiste nell’auto-strangolamento – o nello strangolamento consensuale di un’altra persona – per raggiungere un breve stato di euforia causato dall’ipossia cerebrale, ovvero dalla diminuzione di ossigeno al cervello. Oltre che con il nome di choking game, il fenomeno è noto anche come airplaining (come quando in areoplano si ha la sensazione di mancanza d’aria dovuta all’ alta quota), space monkey (scimmia spaziale), suffocation game (gioco del soffocamento), passout game (gioco dello svenimento), dream game (gioco dei sogni) o blackout. In Francia lo stesso fenomeno, che dal 2000 provoca una decina di morti ogni anno, sostengono le associazioni nate per sensibilizzare i giovani sul tema, è invece conosciuto come jeu du foulard, in italiano “gioco della sciarpa”. Il gioco impazza sul web, e nonostante prenda nomi diversi mantiene sempre le stesse dinamiche e le stesse probabili motivazioni: trasgressione, ricerca di adrenalina e necessità di rinforzare il proprio ruolo all’interno del gruppo dimostrando a se stessi e agli altri il proprio coraggio. Questa sfida social che non tiene conto delle conseguenze, potenzialmente anche letali, rischia di diseducare tutta una generazione in quanto l’emulazione rappresenta uno dei punti cardine del processo giovanile. Alla base di questi comportamenti a rischio non c’è presa di coscienza da parte di chi li mette in atto, in quanto spesso e volentieri la valutazione fatta dai giovani che “accettano la challenge” è solo oggettiva: ‘l’ho visto fare a lui e non gli è accaduto nulla, quindi posso farlo anche io’. Il loro unico scopo è raggiungere lo stato di euforia alla ripresa dello svenimento. I ragazzini in età adolescenziale hanno questa particolare tendenza fisiologica che li spinge a cercare sensazioni più forti, che li faccia sentire più forti e parte integrante di un gruppo. A maggior ragione, dunque, a fronte di un fenomeno in continua crescita ma difficile da monitorare, serve necessariamente un più alto livello di attenzione sul web, rimuovendo tassativamente tali contenuti e sensibilizzando i giovani alla pericolosità di queste azioni. Analizzandone i dati, l’associazione internazionale Games Adolescents Shouldn’t Play stima che ogni anno negli Stati Uniti a causa del choking game o varianti muoiano da 250 a 1.000 giovani. E’ tuttavia difficile fare una statistica precisa, dal momento che molti casi vengono classificati come suicidi.
Facendo una ricerca delle parole chiave blackout, choking game, soffocamento e altri termini associati al cosiddetto gioco su Tik tok e gli altri social non si trova alcun video di soffocamento, anzi emergono risultati legati a video che trattano in modo critico il fenomeno, sottolineandone rischi e pericolosità. Appare anche una differente Blackout challenge (il nome utilizzato dai media italiani) che è realmente in corso su TikTok ma in questo caso si tratta di una serie di video che ritraggono persone in atteggiamenti comuni prima che vada via la luce. Dopo alcuni secondi di buio le stesse persone eseguono azioni molto strane, con l’obiettivo di generare un effetto comico. È importante però precisare che l’assenza di risultati non indica che video del genere non esistano o non siano mai esistiti sulle piattaforme (potrebbero essere stati moderati, rimossi o, sui social network che lo consentono, condivisi in gruppi privati. Potrebbero essere stati utilizzati hashtag non direttamente riconducibili al fenomeno).
Bisogna poi ricordare che il regolamento di TikTok prevede un’età minima per iscriversi alla piattaforma (13 anni) e che da gennaio 2021 l’azienda ha introdotto ulteriori regole per tutelare i minori di 16 anni, i cui contenuti sono oggi protetti da un filtro che può essere aggirato solo con il consenso del minore. Nonostante ciò, il 22 gennaio il Garante italiano della privacy (l’autorità indipendente che si occupa della protezione dei dati personali) ha disposto il blocco immediato dell’uso dei dati degli utenti per i quali non sia stata accertata con sicurezza l’età anagrafica. Riassumendo tutti i concetti finora espressi si può affermare che questi rappresentino solo la punta dell’iceberg di possibili conseguenze ed effetti negativi dati da una sovraesposizione alla “vita sui social” in termini di salute mentale.
Innanzitutto,il primo impatto avviene sul “fattore insicurezza”, questo perché si tende a confrontare costantemente la propria vita con quella degli altri. A questo segue sicuramente l’attribuzione di valore che diamo ai contenuti che postiamo e ai likes che riceviamo. Ogni volta che condividiamo un contenuto o aggiungiamo dei mi piace, attribuiamo a quest’ultimo un valore e poniamo su di lui la nostra attenzione, in questo modo diventiamo noi stessi il prodotto sui social. Ed entra pertanto in gioco la celebre frase “Se non stai pagando per un prodotto, allora il prodotto sei TU”.
I social media sono un potente mezzo per comunicare con molti individui, per interagire o per rimanere aggiornati su qualsiasi notizia. Attualmente essi costituiscono una parte integrante delle nostre vite nonostante non siano del tutto sempre veritieri e limpidi. Oggi, un utente passa in media quasi tre ore al giorno nei vari social network, ma la domanda che sorge spontanea è: quanta verità è presente all’interno dei social?
La maggior parte degli utenti crea un profilo che rispetta le proprie caratteristiche e quindi si rappresenta in modo veritiero anche nel mondo online. Ma nonostante ciò si seleziona sempre cosa mostrare nascondendo invece ciò che non è gradito. Siamo circondati da finzione. Tutti noi indossiamo una maschera che nasconde i nostri aspetti più reali e veritieri come quelli legati all’aspetto caratteriale o fisico nel momento in cui creiamo un account social per mostrare agli altri la migliore versione di noi stessi. Molti utenti si modificano le foto per l’approvazione sociale che oggigiorno rovina le vite a molti individui. L’accettazione ha sempre fatto parte della società anche in passato ma oggi è quantificabile grazie al numero di likes e interazioni dando dei dati sul gradimento e successo di un determinato contenuto condiviso. I social ormai sono diventati una sorta di vetrina in cui ci si esibisce al meglio con l’obiettivo di aumentare l’autostima di se stessi attraverso l’apprezzamento da parte di altri individui.
Siamo accerchiati da account con milioni di followers che prendiamo come esempio e che purtroppo, molte volte, non sono in grado di gestire un pubblico di una tale portata. E perché tutti noi fingiamo? La nostra società ormai ci vuole in un determinato modo: alti, magri e attivi sui social. L’apparenza è diventata l’aspetto che ci preoccupa maggiormente in ambito sociale e che si è trasformato in un’ossessione per molte persone. Infatti, molti utenti modificano il proprio comportamento al fine di essere accettati da altri gruppi sociali. Il problema però arriva nel momento in cui si fa dell’apparenza sui social media il centro della propria vita: fare un viaggio solo per postare delle foto, visitare un luogo per aggiornare il proprio profilo Instagram o cambiare look per adattarsi ai trend attuali. Tutto ciò costituisce uno dei problemi maggiori all’interno della nostra società al giorno d’oggi che va a compromettere l’autostima di un individuo poiché quest’ultimo associa lo stereotipo incontrato nei social come ideale da raggiungere e come realtà. Molte volte questa ossessione è collegata alla bassa autostima di un individuo e i social vengono utilizzati per rinforzare e sostenere il proprio livello di amor proprio. Per cercare l’approvazione ci si adagia a seguire ciò che va più di moda in quel momento per una costante paura del rifiuto.
Tutti i social sono circondati da finzione ma una svolta decisiva si è verificata durante il Lockdown del marzo 2020, durante il quale la piattaforma TikTok ha attirato su di sé un pubblico enorme con una attenzione da parte di milioni di utenti. Questo social aveva, inizialmente, la funzione di una piattaforma per condividere musica e balli ma oramai è divenuto un mezzo per diffondere aspetti quotidiani in modo ironico diventando così un social con un’enorme potenziale. La caratteristica che lo distingue dagli altri social è quella di convivere anche momenti di pianti e tristezza, aspetti che prima su Instagram o Facebook non erano mai stati presi in considerazione. Ma nonostante ci siano molti aspetti semplici e comuni, che rispecchiano la quotidianità di un individuo è davvero così trasparente come social? La risposta è no. Si tratta in ogni caso di un social network, gli utenti registrano un video, lo riguardano mille volte prima di postarlo per controllare se si è ancora presente qualche difetto da eliminare.
Dietro uno schermo è molto semplice risultare la persona più felice al mondo ma quanta verità si cela dietro un dispositivo elettronico? Il nostro smartphone è diventato parte di noi e all’interno dei social raccontiamo la nostra vita postando foto in continuazione. Molti individui non hanno la necessità di essere attivi sui propri profili e che conseguenze ha, tutto ciò, nella nostra società?
Ormai si è diffusa l’idea che chi non è presente nei social è come se non esistesse, ciò significa che molte persone pensano che se non si pubblicano dei post o delle fotografie riguardanti la propria vita e le attività che si svolgono durante la routine sia come se non si facesse mai nulla. Molti utenti adorano ostentare la loro vita agli occhi degli altri mostrandosi sempre perfetti, con una vita agiata così da far provare invidia ai propri followers. Altri utenti invece, pubblicano dei contenuti solo per il gusto di farlo e non per altri scopi. I social stanno decisamente cambiando le nostre vite e infatti li utilizziamo proprio come un palcoscenico sul quale tutti noi ci esibiamo, chi più e chi meno. Prendiamo in esempio la vita di coppia e come viene rappresentata all’interno dei social media. La maggior parte delle coppie nasconde dietro delle fotografie problemi e incomprensioni come crisi matrimoniali, tradimenti e una cattiva comunicazione. Sul web ci sono pareri contrastanti, infatti da un lato si schiera il pensiero di dover condividere l’anniversario, un viaggio insieme o una cena romantica dall’altro ci sono utenti che non condividono nemmeno una singola foto con il partner. Qual è la scelta giusta? Non ne esiste una, è una scelta soggettiva e personale: i rapporti umani e interpersonali vanno oltre la messa in vetrina di una foto o un momento condiviso all’interno di un social network.
Molte persone postano in modo assiduo nei propri profili social e tutto ciò può sfociare nell’oversharing, ovvero la condivisione sul web di ogni minimo dettaglio della propria vita privata. Queste cerchia, non più così ristretta, è quella dei narcisisti che non vedono l’ora di mettere in mostra tutto ciò che hanno e fanno.
I social network non solo sono legati all’immagine che diamo agli altri ma anche all’immagine che vorremmo dare alle persone che ci seguono. Per le persone più fragili ciò costituisce un ostacolo e una difficoltà poiché si attiva un conflitto interno quando si rendono conto che la realtà non coincide con quella condivisa sulle varie piattaforme social ma si tratta di completa finzione. Chi non ha consapevolezza di sé stesso rischia di rimanere vittima di questo circolo vizioso social nel quale ci si sente perennemente inadeguati e imperfetti.La maggior parte delle persone nasconde la propria essenza e trasparenza per ricoprire un ruolo che la società vuole vedere. Molte persone credono che condividere molti dettagli della propria vita sia parte di una persona insicura e con poca autostima, non un egocentrico, ma una persona che ha costantemente bisogno di attenzioni per sentirsi speciale per qualcuno.
Oggigiorno è diventato una azione comune non godersi il momento perché l’obiettivo principale è quello di creare foto e video in qualsiasi momento della propria giornata con l’obiettivo di mostrare ai propri followers cosa si è fatto e cosa si sta facendo. Prendiamo, ad esempio, l’arte della musica: quanti di noi filmano la canzone preferita durante un concerto? Tutti, o la maggior parte e non ci limitiamo a filmare solo una canzone ma quasi tutto il concerto. Nel momento in cui, un concerto ha inizio, la folla prende in mano il proprio smartphone per riprendere quell’istante, molto atteso se si tratta di un parterre, nel quale ci sono migliaia di persone che fanno una coda infinita per accaparrarsi il posto in prima fila. Le persone che si ritrovano dietro vedono il palco e il cantante riprodotto su migliaia di piccoli schermi piatti. È accaduto molte volte che il cantante protagonista del concerto chiedesse gentilmente di spegnere il proprio telefono per divertirsi e per godersi a pieno l’esperienza. Che tu sia fan o no, ti ritrovi in una situazione tale per cui vuoi creare un contenuto statico o multimediale per poi ricondividerlo sui vari social e mostrare alla tua cerchia di followers che ti trovi lì, in quell’esatto istante. Oltre a queste motivazioni, le persone giustificano il tutto con ‘devo filmare o fotografare per avere dei ricordi’ ma la verità è che i ricordi rimangono impressi nella memoria senza l’utilizzo di fotografie, lo smartphone può aiutarti ad averli più nitidi. Per avere un ricordo ci si potrebbe limitare a scattare una singola fotografia o una singola ripresa, per poi godersi realmente il momento e l’attimo di divertimento.
La maggior parte delle persone al giorno d’oggi si sente sola. La solitudine è ancora un argomento tabù all’interno della nostra società, che nei social non viene mai affrontato. E’ sempre più presente una paura legata al mostrarsi accerchiati da gruppi di persone anche se la verità di fondo è un triste isolamento. Gli individui che ostentano molti gruppi di amici e riprendono molte persone nei video, la maggior parte delle volte, non hanno un vero e proprio rapporto ma anzi, si conoscono a malapena. I social sono sommersi da influencer che conoscono miliardi di persone, ma si può parlare di amicizia? L’essere umano è nato per vivere e creare delle relazioni quindi quando si ritrova da solo soffre, ma molto spesso ciò che traspare dai vari social non è proprio la verità: tutti noi siamo soli e non dobbiamo basarci sulle relazioni che vengono condivise all’interno delle piattaforme social poiché in esse si mostra ciò che si vuole e la maggior parte delle volte è finzione. Oramai viviamo in una società nella quale non sono contemplati disagi e sofferenze e nella quale, inoltre, i disturbi psicologici vengono condannati e giudicati in malo modo, classificandoli come delle debolezze.
Siamo arrivati ad un punto in cui la nostra identità virtuale definisce tutto ciò che siamo, e di conseguenza chi non è sui social è come se non esistesse. Difatti oramai è davvero difficile trovare qualcuno che non sia presente sui social network, soprattutto in giovane età. Questo perché? Probabilmente perché diventerebbe sempre più difficile inserirsi nelle dinamiche sociali se si appartiene prima a quelle virtuali. Nel mondo onlife in cui ci troviamo, le vite online e offline si sovrappongono e risulta quasi fondamentale essere presenti in entrambe. Nella realtà digitale ci informiamo, ci connettiamo e in qualche modo costruiamo un nostro Io. Scegliamo che lato di noi mostrare, che foto postare e cosa dire o non dire, Quindi ci permette di creare un versione di noi che vogliamo esplicitamente che gli altri vedano. Sicuramente questa nostra “versione online” influenza anche la nostra vita offline poiché le relazioni che instauriamo, chi conosciamo o quali lavori otteniamo: l ’impatto dell’identità creata nei social network ha un impatto maggiore nella popolazione più giovane. In particolare negli adolescenti si potrebbe dire che i due mondi si stanno fondendo completamente: spesso i social vengono usati principalmente per rafforzare le relazioni esistenti, e ovviamente anche per ottenere maggiori informazioni su eventuali nuove relazioni strette nel loro mondo offline. Difatti, secondo uno studio dell’Università di Gent (Belgio), per gli adolescenti ha un ruolo sostanziale conoscere il profilo di una persona per interagire con essa. È il miglior riferimento e un meccanismo essenziale per l’interazione quotidiana. Attualmente abbiamo raggiunto un punto in cui la nostra vita online potrebbe essere per alcuni ancora più importante della nostra vita reale. La tecnologia attuale ci consente di creare questa identità perfetta da utilizzare nella vita virtuale, che ci porta all’economia della reputazione. In altre parole, quando qualcuno cerca di ritagliarsi uno status virtuale, è obbligato a prendersene cura costantemente, modellarlo e coltivarlo. Questo ci rende ossessionati dall’avere riconoscimenti digitali a ogni costo e spesso lo facciamo senza renderci conto del costo che ciò implica nella nostra vita reale.
Quindi una domanda sorge spontanea: che futuro si prospetta per chi vive senza social? si può vivere ancora senza?
Partiamo dall’assunto che la vita senza social potrebbe avere sia conseguenze positive che negative. Positive in quanto, indubbiamente, chi prova a trascorrere un periodo senza dopo i vari tentennamenti iniziali e la necessità di controllare i propri profili, il più delle volte riconosce un senso di liberazione. Il senso di preoccupazione più grande potrebbe essere la paura di venire dimenticati dai propri amati followers e del rimanere al di fuori dalle attuali conversazioni puramente social che si trattengono con gli amici. All’opposto, esiste tuttora un numero enorme di utenti Internet non presenti o quasi del tutto inattivi sui social, che considera queste piattaforme come uno dei tanti servizi gratuiti del web e non avverte l’ansia da disconnessione, proprio perché non ha alcun doppio digitale di cui prendersi cura.
Ma chi sono? Sono tutti anziani, o analfabeti digitali, quelli che non hanno un profilo social? Forse si, la maggior parte, ma non tutti.
Esistono giovani che non sono presenti sui social, e i motivi possono essere differenti: come ad esempio la mancanza di amici o parenti già presenti sui social, da cui iniziare a costruire una propria base di “amici” e follower o una scarsa autostima personale, che potrebbe essere legata a precedenti esperienze negative (come il bullismo) e che quindi spinge a mantenere il loro desiderio di anonimato. Anche la diffidenza verso le piattaforme e il trattamento dei dati personali potrebbe rappresentare un motivo di assenza sulle stesse.
L’informazione che serve all’individuo non si limita alle sole notizie: solo i social sembrano essere, in questo momento, in grado di liberare tutto il potenziale inespresso della conoscenza collettiva. Insieme alla perdita di informazioni, un altro svantaggio del vivere senza social è quello, meno evidente, del generare sospetto nel prossimo: l’esigenza di mostrarsi “trasparenti” non è più un imperativo solo per la classe dirigente o per le aziende. Ormai tutti i datori di lavoro, i partner o i clienti potenziali sono soliti sbirciare nei nostri profili social prima di accordarci la fiducia di un incontro, di un contratto. Solo i social media storici, in questo momento, sono riusciti a creare identità digitali credibili e collettivamente verificate (più Facebook e LinkedIn di Twitter, forse, e questa è una delle cause della crisi di quest’ultimo). Se “l’identità è la nuova moneta”, chi non ha un social si ritrova con un’identità dimezzata. Il timore di venire dimenticati combacia con il rischio di non venire presi sufficientemente in considerazione. I social media ci offrono gratuitamente la possibilità di trasferire la nostra identità fisica nell’ambiente digitale, salvo poi decidere arbitrariamente le regole del gioco e lasciare a noi tutta la fatica di gestire la nostra vita digitale.
In conclusione, possiamo affermare che l’uomo è un animale sociale ed è circondato da un’infinità di connessioni e fa parte di varie tribù sociali, diverse tra loro nel linguaggio e nelle forme di espressione. Senza alcun dubbio le relazioni, a seguito dell’arrivo di Internet, sono cambiate e sono in continua mutazione passando dagli opinion leader agli influencer, con un grado di influenza decisamente molto alto. Gli individui sono ossessionati dal mondo social, soprattutto la generazione Z e i Millennials che passano in media più di due ore al giorno sui vari social. Viviamo nell’era della ‘onlife’, periodo durante il quale tutti noi non riusciamo a creare una netta separazione tra vita online e vita offline poiché siamo sempre e costantemente connessi alla rete. Questo contesto porta anche dei rischi poiché spesso siamo noi esseri umani ad adattarci alla tecnologia e non il contrario. Ormai, gli utenti non sono più degli spettatori ma sono co-creatori di contenuti e questo fenomeno li coinvolge a pieno: sono completamente attivi postando contenuti multimediali in ogni momento della loro vita. Per quanti lati positivi abbiano i social, oggigiorno rappresentano dei mezzi pericolosi per tutti noi. Purtroppo, dietro essi, si cela una notevole finzione che porta molti problemi a varie persone: possono nascere delle insicurezze e abbassare l’autostima, possiamo entrare in un loop continuo nel quale non riusciamo a comprendere quale sia la vera realtà e ciò costituisce la paura più grande per noi giovani. Come sarà la nostra vita tra cinque, dieci anni? Come utilizzeremo i social? Come nasceranno le nostre relazioni interpersonali? Una cosa è certa: nella rete i cambiamenti sono repentini e già l’anno prossimo potrebbe cambiare il modo con il quale agiamo sui social o perfino tra un mese e ciò lo confermano ogni giorno nuovi trend ai quali ci affidiamo. I social network stanno raggiungendo un nuovo stadio di innovazione, con un’accelerazione negli ultimi due anni si sta pian piano arrivando ad una realtà sempre più immersiva: la cosiddetta realtà virtuale. Con l’avanzare della tecnologia, gli apparecchi necessari alla VR sono più accessibili dunque molte più persone sono interessate ad essa. Oggi, molte persone preferiscono dei metodi di apprendimento diversi anche nell’ambito scolastico, grazie alla realtà virtuale si potrebbero coinvolgere molte persone con l’utilizzo di un unico dispositivo di apprendimento, imparando e capendo lo stesso argomento da una prospettiva diversa. Crediamo che i social media, in generale, siano un’arma potente al giorno d’oggi, sia in ambito relazionale sia, soprattutto, in ambito lavorativo. Non si può nemmeno immaginare di avere un’azienda, un ristorante o un negozio senza avere una pagina Instagram o un profilo attivo su TikTok durante quest’epoca. Eppure c’è la doppia faccia della medaglia: i social non sono facili da utilizzare. Bisogna studiare ogni singola mossa per eccellere in questo ambito. La preoccupazione che ci invade, però, è quella di perdere ogni connessione con le relazioni interpersonali, di avere amicizie e relazioni solo attraverso uno schermo e non più in modo realistico. Ci preoccupa l’idea di avere connessioni fittizie e false, basate solo sui post che si condividono in rete. Crediamo, quindi, che usare i social network sia ormai necessario e indispensabile per adattarsi alle novità e al flusso continuo delle innovazioni tecnologiche ma bisogna sempre ragionare e capire che si ha a che fare sempre con un dispositivo e che molte volte, lo schermo utilizzato non rappresenta la realtà.